TESTI & DOCUMENTI
Francesco Maino

Ecco quello che faccio...

di Francesco Maino
...scrivo in piedi sulla zattera liquida, trasformatasi in libro galleggiante su parole neonate, scrivo ma vorrei comporre, io che non so la musica, ma so le note, io mi accompagno ai musicisti che fanno Chopin e i Beach Boys con la pianola e la tromba, sicché si compie l'incantamento in questa campagna cristiana in cui i trattori, in lontananza, sembrano zioghini sfocati per bambini adulti, allora scrivo come il cefalo guizza dalla sponda, come il putelo poppa il latte di Eva, come l'orbo guarisce col fango, come il capobanda ordina il Silenzio, per il milite, come il lèvero fugge il bracconiere, come i vecci battono la carta, come la coga prepara el baccalà, come mio padre onora mia madre, come il camionista mi manda in culo, come la bonaccia blocca la vela, come la gardella scotta i pevaroni, come Matteotti punta el dèo ai fascisti, come i veneti bestemano umanamente, come i preti pregano, come le troie fan le troie, come le spose provano l'abito, come gli imbriagoni bevono dal calice di Giuda, come il murero getta la malta marza per far casematte, come il profesòr catechizza i cèi, come i cavalli s'azzoppano, come le femene xigano, come i fradei non sono più...
...scrivo come se fossi un pezzo di queste cose antiquarie, custodite dentro di me, e fossi d'improvviso senza lingua, nel quattromila oltre Cristo, nella nova età del bronzo, primordiale nel futuro.
CONTRIBUTI
Massimo Rizzante

La città di provincia
dove i sensi di colpa sono madre e vita

di Massimo Rizzante
Cartongesso, romanzo d'esordio di Francesco Maino (1972), è la lunga confessione di Michele Tessari, un trentasettenne «scriba per vocazione e avvocato per costrizione» affetto, almeno secondo il suo analista Faraon, da un disturbo bipolare, che abita in un «bidè di provincia» dove «la vita è tutto bancomat», in un paese del «bassopiave», Insaponata, vicino a Venezia, anzi Venessia. La lingua ufficiale di Insaponata e di tutto il «mesovenetorientale», e di cui è infarcita con estro gaddesco e insieme zanzottiano l'intera confessione del protagonista, è infatti il «grezzo», un «dialetto delle paludi del 6000 a.c. bonificate nel primo Novecento dalle forze liberali». Da sette anni Michele Tessari frequenta il tribunale della città lagunare andando avanti e indietro per le strade della sua marca veneta nella vecchia Clio del padre. Sebbene abbia affittato un piccolo monolocale, è ancora molto legato ai genitori, soprattutto a sua madre. Non riesce a liberarsi dal suo «giogo». Riuscirci, significherebbe affrancarsi dal senso di colpa e soprattutto da ciò che lo affligge di più: dai fantasmi che gli infestano ogni giorno la mente e che lo costringono a vivere perennemente ai margini del mondo, un mondo che vede abitato da esseri contaminati, corrotti e senza via d'uscita. Ma non c'è niente da fare: non si potrà mai liberare da sua madre né, di conseguenza, dai suoi fantasmi. Questa che ha tutta l'aria di una sconfitta, in fondo non lo è affatto: Michele, per quanto non lo dica mai esplicitamente, sa bene che tale dipendenza, che come un «cucciolo di vipera sotto vetro» lo fa sentire debole e complice dei suoi odiosi e amati concittadini, come lui custoditi per sempre dentro «il liquido asettico» di un barattolo, è in realtà la sua forza: il risentimento, ovvero il sentimento che continuamente si ripete e si rinnova traendo forza da ciò da cui non si può liberare e che trasforma la confessione di Michele in una litania che sembra non avere fine per la semplice ragione che la sua origine è sempre presente. Soltanto chi ha radici può essere radicale, può cioè combattere attraverso i suoi fantasmi un mondo di finti vivi come quello di Insaponata e dintorni. Non è un caso che fin dall'inizio afferma che il suo primo e vero lavoro è «impedire alla salme mobili che occupano la mia vita biologica di annientarmi definitivamente colla loro biologica visione delle cose». Quanto alla sua professione di avvocato, Michele accetta i casi più disperati e irrisolvibili che i suoi colleghi rifiutano, casi così miserabili che non meriterebbero neppure un rimedio giuridico tanto sono umani, grottescamente umani. Del resto lui stesso è un caso clinico. Accetta di difendere i suoi assistiti non tanto per denaro quanto per profonda empatia con le loro disavventure. Si sente uno di loro, un disadattato, «un essere fuori luogo», un uomo costretto dalla sua «crapa pensatrice» a stare sempre dalla parte della «minoranza minorata», qualcuno che un tempo è stato una «persona» e che possiede «un'antica ferita, un'originaria ferita prenatale mai cicatrizzata, mai suturata, un'antica infezione al centro del petto, che butta spritz e pus, una fistola, ma non nel culo, nel cuore». Questa «ferita», questa «infezione», Michele, come lo scrittore Francesco Maino, la conosce bene: è quel morbo dell'anima che nel medioevo i dotti chiamavano ora acedia ora tristitia ora taedium vitae e che in epoca moderna andrà sotto il nome di melancolia. Tutta la letteratura di un qualche valore è melancolica, nasce sotto Saturno. A volte si esprime attraverso uno sguardo desolato, ironico, riflessivo, a volte, come nel caso di Cartongesso, espone da madre premurosa e feroce quale sa essere la sua prole più negletta: rancor, desperatio, verbositas, instabilitas e ammanta di bile e di sarcasmo comico tutto e tutti, trasforma uno studio legale in un lebbrosario, anzi in «un pellogrosario», un tribunale in una fogna, una fogna in un tribunale, un tribunale in un water a cielo aperto, i topi in avvocati, gli avvocati in topi, un paese di nome Insaponata in un'enciclopedia di esseri non nati, anzi di esseri solo concepiti e una provincia veneta, dove non ha più senso neppure la povertà, in una provincia del mondo e dell'anima.
Francesco Maino (1972) è uno scrittore italiano.

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