Danilo Kiš. Inediti, testimonianze, saggi
2004, Nuova Prosa n.40
A cura di Massimo Rizzante
Il numero raccoglie interventi di Danilo Kiš, Milan Kundera, Iosif Brodskij, David Albahari, Mirko Kovač, Guy Scarpetta, Vladimir Tasić, Walter Nardon, Stefano Zangrando, Alexandre Prstojević, Stanko Cerović, Massimo Rizzante
La grandezza artistica di Kiš è ancora quasi tutta da scoprire. Penso che ciò sia derivato da un certo isolamento dell’autore, cioè dalla sua particolare posizione politica quanto dal suo originale modernismo estetico. Può sembrare paradossale parlare di posizione politica per un romanziere che per l’intera vita ha condannato attraverso la sua opera tutte le oppressioni totalitaristiche (nazismo, stalinismo) che vogliono ridurre l’uomo alla sola dimensione di homo politicus. Solo che Kis, che non era né un dissidente né un rifugiato, ha emesso questa condanna in tempi in cui l’arte, sia a Occidente che a Oriente, veniva considerata come un’estrema appendice della politica. Kiš rivendicava la ricchezza e l’unità culturale della tradizione europea, la riflessione metafisica, la sensibilità di homo poeticus sia contro la scuola realista di Belgrado che contro l’engagement di Parigi. La sua “posizione” politica isolata derivava, dunque, dalla sua “posizione” estetica. Quanti potevano comprendere a Belgrado un autore cosmopolita che si rifaceva non solo a Rabelais e a Flaubert, ma anche alle grandi innovazioni formali dei teorici del formalismo russo e di Borges? E quanti intellettuali, nella Parigi degli anni ‘60 e ‘70, potevano comprendere questa “rarità etnografica” che citava come autorità della letteratura europea non solo Nabokov, Babel', Pil'niak, ma i suoi maestri jugoslavi, Andrić, Krleža, Crnjanski?
L’originale e ambizioso progetto estetico di Kis di riconciliare, all’ombra del progenitore del romanzo moderno, Rabelais, l’anima balcanica con il senso della forma e del concreto della letteratura centroeuropea, non poteva trovare, dunque, né Est né a Ovest, l’attenzione che meritava. Ma penso che sia necessario aggiungere qualcos’altro se si vuole comprendere come la sua opera anche nel corso degli anni ‘80 e ‘90, in questa nostra epoca di apparente rielaborazione dei grandi lutti del secolo, non abbia avuto che pochi lettori.
A differenza della letteratura di testimonianza, a differenza di autori come Primo Levi o Solženicyn, Kiš è stato il solo, nella seconda metà del '900, che ha osato utilizzare gli strumenti formali più sofisticati - straniamento, costruzione rallentata e polifonica della narrazione, ricostruzione fittizia di documenti storici - per sottopporre all’esame romanzesco i drammi cruciali del secolo, i Lager nazisti e i Gulag staliniani, Auschwitz come la Kolyma. E’ stato il più moderno dei romanzieri che ha esplorato il mondo più refrattario alla memoria storica: un mondo di milioni di esseri la cui esistenza non è stata altro che una marcia silenziosa verso il nulla. Ma non è tutto. “Colui che afferma che la Kolyma è qualcos’altro da Auschwitz, mandalo al diavolo”, consigliava Kiš a un giovane scrittore. Non intendeva porre un segno di uguglianza storica e politica tra i due eventi. Da romanziere ci rivelava una possibilità esistenziale: da quell’identica sparizione di corpi senza tomba l’uomo d’ora in avanti potrà essere trattato come un anonimo rifiuto biologico, ridotto a puro zoon, privato di ogni dimensione politica e poetica. A noi, uomini politici e poetici, di verificare se questa ipotesi appartiene solo al campo della “realtà non reale” che per Kiš è la letteratura.